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La lavagna - Modenesità

Locande e Osterie dell'Ottocento

GROG
Scritto il 14/11/2008
da GROG
Curiosando nella fornitissima biblioteca familiare, ho scovato in fondo ad un armadietto, questo minuscolo libercolo, dal titolo assai strano. L'ho letto in quattro e quattr'otto, e siccome mi è piaciuto, ho deciso di rendervi partecipi di questa mia conoscenza.

Si tratta di un libercolo edito in Modena dal Poligrafico Artioli nel 1958, con una tiratura di soli 200 esemplari. Nella testata si evince:

“Quaderni storici modenesi di varia natura
Pubblicazione saltuaria a cura dell'autore
Adamo Pedrazzi
Locande e Osterie dell'Ottocento
Antichi usi della vecchia Modena”

Ho volutamente saltato tutta la presentazione perché inutile e prolissa, ho invece riportato il nocciolo della questione.

Buona lettura, spero riscuota il vostro interesse.



Quelle che con bel nome italico erano dette nel passato osterie, hanno sempre segnato una speciale caratteristica di qualsiasi luogo od abitato del nostro Paese, e vi hanno in ogni occasione esercitata una impronta strettamente legata alla vita stessa degli abitatori della città o villaggio.
pure erano dette locande, in senso assoluto, in quanto nella pluralità dei casi, in esse si trovava ospitalità o dimora nelle nottate, disdegnando, in antico, il popolo nostro di fare uso del non purissimo termine di albergo.
In alcune località, specie nel forese o nei luoghi immediatamente prossimi ai centri abitati, in luogo di osteria o di locanda si adoperava uno stranissimo nominativo, forse preso a prestito da un latino barbaro o della decadenza, cioè si chiamavano: tabine.

SUL FINIRE DELL'OTTOCENTO

I nostri glossari dialettali non ci tengono verbo su detto nome, del quale è assai ardua cosa l'investigare la etimologia; pure da secoli essa esiste e tutt'ora perdura, poiché, senza troppo incomodarci, a due passi da Modena trovasi tuttora una locanda che appunto è detta: Tabina.
Volendolo - tanto per dare sfogo ad una innocente curiosità - si potrebbe fare appello, per venirne in chiaro sulla denominazione etimologica, alla voce latina taberna, la quale trasformala da prima dialettalmente in tabeina, come tutt'ora si usa pronunciare, può in seguito avere generata quella che è l'antica ed odierna forma italianizzata: tabina, senza che dizionario alcuno della nostra lingua lo registri.
Vediamo ora, senza toccare delle antichissime osterie che hanno deliziata la vita nei secoli da noi molto lontani, qualche cosa del secolo passato, l'ottocento, perché diremo di esso che nel caso modenese, fu l'ultimo a lasciarci il ricordo di un mondo intimo che in breve correre d'anni è completamente scomparso.
Citando a memoria diremo che ben oltre ad una ventina erano le locande note e famose nella nostra città, le quali sono per tre quarti, se non più, venute a scomparire sulla fine dell'ottocento, e delle quali i modenesi che hanno varcato la cinquantina conservano un chiaro ricordo.
Osterie quindi e locande, non escluso che alcune di esse avevano pure il comodo d'allogare cavalli, cioè tenevano lo stallaggio per il pubblico della campagna che recavasi alla città col mezzo più usitato di un magro ronzino.
Tipicissimi erano i nomi - si potrebbero dire nomi di battaglia in quel loro multicolore campo - che le distinguevano, e presi a prestito dal regno animale per lo più.
Il regno dei volatili e pennuti era abbondantemente spogliato, perché avevamo: l'Aquila nera, l'Aquila d'oro, il Gallo, la Colomba, la Rondine, il Pavone; mentre fra gli animali, più o meno domestici, va segnalato: il Leoncino, il Leopardo, il Bue, la Cervetta, il Cavalletto. l'Elefante, ed infine il Gambero, il solo che si vedesse annoverato nella classe degli acquatici.
Fra i santi, nessuno, perché il San Marco odierno appartiene ad altra categoria, a meno che non si voglia porre fra i santi quei Tre Re, che altro non erano se non i famosi Re Magi del Santo Vangelo.
Moltissimi altri nominativi erano dati un po' a caso e un po' con un significato di colore locale, e fra di essi conviene fare cenno di numerose locande alcune delle quali di buona fama. Eccole: il Pellegrino, lo Stivale d'oro, la Fontana d'oro, il Pozzo d'oro (quanto oro, e tutto a buon mercato!), le 18 Colonne, la Formenta, la Campana, la Barchetta, la Stella d'oro.
Molte avevano la bella insegna parlante, cioè all'esterno della bottega si profilava al di sopra di essa l'immagine dell'animale o comunque della persona od oggetto che dava il nome all'osteria.
Tipicissima una antica osteria che si apriva nel fondo della via Malatesta - un tempo non lontano era elencata come via del Malore - osteria che per insegna portava una "cuffia" dipinta da un buon pittore. Era assai nota ai bevitori nostrani che vollero legare il titolo di "scuffiin" al proprietario del luogo.
Alcune di codeste insegne si sono vedute sino a pochi anni fa nei mercati dei ferravecchi, e nessuno v'è stato che abbia pensato bene di venirne in possesso per un qualche nostro museo. Sempre supposto però che ancora vi siano persone che amino vedere un briciolo di colore locale, un po' vivo ed allegro, fra il molto freddo che regna nelle nostre raccolte artistiche.

LA LONTANA VITA DEI NONNI

Sulla ubicazione di codeste locande veniamo ora ad alcuni dettagli che avranno, almeno, la virtù di farci rivivere per alcuni istanti la vita dei nostri padri e dei nostri nonni.
L'Aquila nera, si apriva nella via detta oggi dei Balugola, ma che un tempo era detta dell'Aquila Nera, in virtù appunto della notissima locanda che colà dava il tono o sapore maggiormente apprezzabile. Aveva la sua sede in uno di quei tipici angiporti che erano vanto delle belle e razionali case del nostro cinquecento. La sua bella insegna, sino ad alcuni anni or sono, era visibile in un canto del cortile di detto fabbricato.
Il Pellegrino, un tempo aveva sua sede agli inizi della via S. Agata in sinistro lato. Anzi i buoni modenesi - i vecchi, però - usano ancora vicendevolmente o S. Agata, o Pellegrino per designare detta via, la quale ora è venuta a scomparire per metà in seguito ai notevoli guasti di recente praticati in quella zona cittadina.
La locanda però sino dal 1885 - a un di presso - aveva portato i suoi penati nel palazzo Bellentani, ex Solmi, esattamente ove ora sta la Provvida.
Ricordiamo la insegna in ferro appesa sotto l'atrio del palazzo: insegna che raffigurava appunto un pellegrino con bordone e rocchetto.
Comunissime nel passato le osterie votate al Pellegrino poiché le stesse, in uno a quelle dei Re Magi - nel nostro caso Tre Re - erano le più frequentate dai romei o pellegrini che andavano girando il paese per recarsi ai luoghi santi.
L'Elefante si trovava a metà della Posta vecchia, la via oggi chiamata col nome del martire Cesare Battisti, ed era frequentata dai vetturali e sensali, in ricordo forse delle soste che in detta via facevano le diligenze postali di vecchia data, sino a quando le medesime non vennero trasferite nelle famose stalle ducali di Piazza Hannover.
Aveva la sua bella insegna di ferro, con suvvi dipinto il Grosso pachiderma, ed è vissuta sino a pochi anni or sono. Nella stessa via aveva il suo recapito la corriera di Nonantola.
La Fontana d'oro, che stava sulla via Bagni all'incontro con la via Cervetta, è a sua volta da alcuni lustri scomparsa, e morì quando venne a cessare il noto servizio della diligenza: Modena-Pavullo.
Detto servizio era gestito da un tale Angelo Nicolai, noto ai più per il solo soprannome che il popolino gli aveva affibbiato di Metternek.
Aveva alle sue dipendenze due postiglioni arcinoti alla generazione passata, uno dei quali era detto Chilat dal suo originario nome di Achille, l'altro chiamato dai più Durat, di casato chiamandosi egli Avanzini.

LA VECCHIA DILIGENZA...

La ricordiamo ancora la vecchia diligenza muoversi ogni mattino alle ore antelucane, proprio di fronte a codesta locanda della Fontana d'oro, e col ricordo ci si affaccia alla mente una Modena scomparsa, che ci appare tanto lontana, sebbene si riduca a pochi lustri tale lontananza nel tempo. Eppure quanti mutamenti nel vivere nostro, quanto più grande, ma quanto meno bello il nostro piccolo mondo!
L'osteria del Gallo, al pari di quella del Leoncino, detta ancora: Tabina, ed al pari di una terza locanda detta: la Barchetta, stava nell'immediato forese della città. Anzi, a dir vero, potremmo dire: sta, poiché essa è una delle poche superstiti e trovasi al di fuori di quella porta della città che un tempo era chiamata di Baggiovara, ed oggi di S. Francesco: di quella porta cioè che con giusta ragione dovrebbe dirsi porta montanara, poiché vi apre la via che conduce ai monti.
I frignanesi, ed i montanari o colligiani in genere, allorché scendono alla città, qui sostano; qui fanno centro di ogni loro faccenda; qui dormono e qui si cibano.
Essi non conoscono nella intera città che "e gall" ed è per loro tutto un mondo codesto antico ritrovo, che per essi, si può dire, è vissuto e vive.
Sempre fermandoci alle locande del suburbio, non dobbiamo dimenticare quella detta della Campana, sulla via che mena a S. Lazzaro, e l'altra che godeva di un tipico nome: Casotto dei Francesi.
La prima era anche designata col nome di francese derivazione: Lubersetto, da aubergets, mentre la seconda ha origini - o quanto meno deriva il suo nome - da vicende poco liete.
Si narra infatti che il luogo si nominasse Casotto dei Francesi, perché in detta terra, vicinissima al canale Pradella, ebbero pietoso seppellimento quei non pochi soldati francesi che videro la fine dei loro giorni in quelle zuffe sanguinose tra francesi ed austriaci, di cui fu spesiso teatro la nostra città durante il periodo d'anni nel quale essa vide salire al potere i giacobini di Francia.
Da osteria quale era al suo sorgere, passò di grado, se così può dirsi, negli ultimi anni di sua vita, cambiando un po' la sua natura. Assunse invero l'aspetto di una esotica birreria, e in essa si davano convegno brigatelle di amici, componenti sinedri di natura più o meno artistica, sempre però animati da indiavolato brio, e da insaziabile voglia del vivere giocondo.
Sono rimasti celebri alcuni di codesti festosi ed accademici convegni.
Dovremmo ora parlare di altre, quali la locanda del Bue, una delle più tipiche della città nostra che si apriva al sommo di una viuzza omonima sulla quale prospettavano le finestre della famosa "Cmuna", prigione comunale, e per ragione di ubicazione, dell'altra osteria che sorgeva nella contigua strada delle vaccine, osteria che si disse delle 18 Colonne, dal numero delle colonne di un portichetto che la fiancheggiava, ma ci chiama una non meno notevole taberna, il nome della quale è rimasto famoso anche dopo la scomparsa della medesima : la Formenta, già nella antica via delle carceri.
Codesto nome, che per sé sembra insignificante, si lega invece a lontani ricordi di mercati frumentari che si tenevano in questa zona cittadina, e vi parla dei magazzini di grano ospitati nel fabbricato ove trovavasi la Formenta osteria e stallatico, nello stesso tempo, riserbato quest'ultimo in ispecial modo ai mercanti di asini, che qui facevano sostare le loro mandrie prima di inviarle ai mercati..
Per ultima faremo cenno della locanda della Barchetta, la quale venne eretta nel 1827, in apposito fabbricato disegnato dall'Ing. Cavani, nei pressi del Bacino o Darsena del Naviglio, fuori Porta Castello, in sostituzione di altra meschina osteria, ormai cadente, a sua volta denominata Bacchetta.
Nella costruzione del fabbricato, si distribuirono i suoi locali in maniera tale da poter servire per alloggiarvi, all'occorrenza, alcune compagnie di soldati.
Tale fu il pensiero del Duca Francesco IV.
Qui ha termine la nostra rassegna, convinti però di non avere se non in parte compiuto il dovere prefissoci, poiché è più che certo che in qualche dimenticanza saremo incorsi.
Tuttavia un primo schema è stato esaminato e se del caso, ripareremo, in una prossima puntata, alle dimenticanze.

(« Il Resto del Carlino » - 15 dicembre 1940).

A MO' DI GIUNTA FRESCA ALLA DERRATA ORMAI STANTIA

II mio scritto, nato quasi un vent'anni fa, si chiude con una promessa che non ha avuto conferma sino ad oggi. Infatti se il lungo silenzio ha dalla sua parte ragioni di varia natura per mantenersi tale, oggi, per un occasionale motivo, mi decido ad interromperlo.
Tuttavia non è senza rincrescimento - esso però è tutto mio - che mi accingo alla nuova fatica, poiché di quel mondo modenese, antico e vecchio, più nulla rimane, ed è solo nei ricordi graditi, ed un po' lontani, della mia fanciullezza, che troverò quel lieve confronto che in simili casi è dato anche dalla semplice rievocazione di un caratteristico passato, e di ricordi graditi ancora vivi nell'animo di noi tutti, anche se stanno per farsi vizzi e sono per appassire.
Prima però di venire a dettagli mi fermo ad alcune constatazioni di fatto che nella materia in discorso hanno il sereno volto delle cose paesane. Le osterie, locande e stalle, avevano un tipico compito: quello di sottosegnare, quasi elencare, la toponomastica cittadina.
Vediamolo brevemente, iniziando il nostro giro, sia pure mentalmente, verso qualche zona della città che guarda, quasi in giocondità, verso il monte; ovvero quella che era chiamata Porta San Francesco o di Baggiovara.
Nell'immediato forese, cioè appena fuor delle mura, v'era una ampia zona che il popolo da tempo lontano chiamava e designava dal nome del « gallo » e perchè? E' ovvio il pensare che attorno a quel sottomura esistesse una qualche osteria o locanda che avesse per insegna il baldanzoso pennuto.
E così era. Colà da tempo, immemorabile, per mo' di dire, si apriva una osteria che aveva per insegna un bel gallo, pennuto ed ardito, che anche nell'umile veste in lamiera di ferro che gli era propria, non disdegnava di essere fatto segno ad indice, di una osteria e di una capace stalla, entro la quale trovavano ospitalità e sosta i cavalli, che scendevano periodicamente dalla montagna. Non v'è montanaro che dovendovi parlare della città non vi dica ch'egli si recava allorché veniva a Modena, al « gallo » perché ivi faceva sostare il suo cavallo od il suo asinello, o, quanto meno egli, se solo era, vi si fermava per il modesto desinare.
Quel pennuto è stato lassù quale insegna del tipico luogo per anni ed anni, e solo di questi giorni, è scomparso dal suo antico posto.
Ho notato il fatto allorché m'ha preso il desiderio, dopo la lettura dello scritto del prof. Morselli, di sincerarmi se il silenzioso galluzzo fosse ancora al suo secolare luogo: non v'è più, e neppure m'è dato di conoscere dove egli sia andato a finire dopo tanti anni trascorsi con l'onorato compito di fermare il passante, per indicargli un luogo di sosta e per ivi consumarvi una... bevanda ristoratrice.
Proseguiamo il prefisso itinerario entrando in città.
Sul piazzale - o quasi - di S. Francesco incontriamo un luogo di ristoro, ma la sua storia è di recente data, anche se nel breve tempo si è fatta nutrita, quindi non è per noi che guardiamo al passato, mentre, dopo pochi passi eccoci ad una vietta popolana che fa al caso nostro, e pel suo nome e pel suo storico attributo: Via dei Tre Re.
Strana potrebbe giudicarsi la « toponomastica » che le è propria, ma codesta stranezza si attenua allorché ci facciamo a considerare che in questa via si apriva una locanda ed osteria dal tipico, seppur consueto, nome dei Tre Re, che, dopo tutto, erano i famosi Re Magi del tempo di Gesù.
Titolo non esclusivamente nostro, perché non v'è città in Italia che manchi di tale prerogativa - e quando non si parla dei Re ci si ferma sui Tre Mori - ma nel caso nostro, e per stare al tema, codesta osteria aveva la sua bella insegna in ferro colla dipinta immagine. Ora anche questa da poco tempo è scomparsa.
Proseguiamo lungo la bella strada del Canalchiaro non più canale, percorrendo l'ospitalissimo e chiassoso portico, per fermarci al suo incrociarsi colla Via Balugola, che sfocia sul Piazzale Torti. Nomi codesti che si possono dire recenti, ma che in passato erano così indicati: Aquila nera.
Il perché del nome lo si aveva dal fatto che al mezzo di detta via si apriva, sino a non molti anni fa, una antichissima osteria che rispondeva all'insegna dell'Aquila nera. Io ricordo ancora di avere veduta nella mia infanzia la nera insegna, ed in più rammento che i miei vecchi allorché mi incaricavano di piccole missioni, erano soliti dirmi : recati « all'aquila nera » e compera questo o codesto.
E l'insegna m'era di guida, poiché in allora nulla sapevo del romano casato dei Balugola che, e sono trascorsi molti secoli, si abbarbicarono su di una ripa montana specchiantesi sul Tiepido, e di fronte a Monfestino.
Oggi l'osteria dell'Aquila nera, non è più. Anche il portale in cotto, cinquecentesco, è stato rimosso - ora fa mostra della sua antichità in un androne del Civico Palazzo, colà ove si allineano le stanze dell'Ufficio dei Lavori - ma il piccolo cortile, o « chiasso » dei toscani - e per noi modenesi l'antico « angiporto » - ancora si apre colà ove una ditta di materiali per l'edilizia ha aperto anni sono, e tutt'ora lo esercisce, cotesta specie di prosperoso emporio.
Però il cortiletto, o chiasso, è stato rispettato, ed in esso alligna ancora l'annosa vite che allietava gli occhi, non però la gola, della mia infanzia. Tiene ancora i suoi rami estesi e curati a mo' di pagoda, dandoci la conferma che anche fra le mura cittadine si danno di simili casi, di allignamento di piante. Un tempo, in altro luogo, non lontano da questo, la vite ha dato e da tuttora il nome ad una via che si affaccia sul Canalchiaro, e poco lungi si notava in una solitaria stradetta un secolare « alloro » che a sua volta designava il Vicolo dell'alloro.
Tutto è sparito ed è con vivissimo compiacimento che visitando l'antichissimo « chiasso » ho non solo osservato la maestosa pianta, ma è giunto al sommo il mio gaudio allorché sul fondo ho osservate superstiti le due colonne, d'epoca tarda per non dire antica, che segnavano l'ingresso alla vasta sala che costituiva « 1'osteria » dell' Aquila nera.
E questa se ne è andata in volo? No! ha semplicemente cambiato di parete. Prima stava infissa sull'ingresso della locanda, oggi è conservata, rispettando la sua linea antica anche pel modo di farla sporgere dal muro, ed è là che vi guarda, nera nera e rugginosa e dagli occhi spenti.
Ottimo divisamento; e dobbiamo esserne grati a chi ne è padrone, non solo per averla conservata, ma anche pel fatto che la piccola cosa che essa rappresenta si pone fra le grandi che compongono la nostra variopinta cronaca cittadina.

E facciamo una sosta, non in quella via che in passato era detta dello «spavento» (oggi Trivellari) per fermarci nella non panoramica via della Cervetta. Essa infatti ha il suo nome dall'insegna di una locanda assai nota che da secoli aveva qui i suoi battenti e le annesse stalle.
La locanda è rimasta e vive tuttora di vita vegeta, ma l'insegna della « cervetta » se ne è andata, forse ignobilmente deposta fra i ferrivecchi del cenciaiuolo: il suo nome però è rimasto alla via.

Affacciamoci in sulla Piazza Grande che di osterie un tempo, e quindi di insegne, ne abbondava, oggi tutte o quasi scomparse, per toccare, dopo attraversata la Via Emilia, il fianco a ponente della Chiesa del Voto.
Questo, in tempo non lontano da noi, si sviluppava sulla via detta di S.Agata, ma che il popolo da anni lontani l'aveva battezzata: via del « Pellegrino ». Il titolo era dato dall'insegna dell'osteria che si apriva in sinistra della via stessa. Vi è rimasta per lungo tempo, e da quel suo luogo tipico, sotto quel portichetto modesto, ma accogliente, sino a quando lo svizzero Meuli, caffettiere, non ridusse a linea più moderna la notevole casa cinquecentesca di cui s'era fatto padrone.
In allora l'osteria del Pellegrino, portò i suoi penati nell'ampio loggiato del Palazzo Bellentani, che era passato in proprietà del Solmi.
L'osteria del Pellegrino, traslocando costà, portò entro il suo particolare bagaglio, l'insegna in ferro che segnava, invero, la sua carta quasi nobiliare, ma sopratutto antica. Io la ricordo ancora, e con vivissimo piacere, la bella insegna, e vi rivedo, quasi con occhi di un tempo passato, il vecchietto ammantato nel suo « rocchetto », col suo alto bordone, e colla immancabile « zucchetta » entro la quale quell'eterno viandante teneva la poca acqua per dissetarsi.
Pochi anni or sono avvenne, come per le umane cose, la fine del veterano pellegrino, e non so ove egli abbia deposto le sue spoglie. L'insegna, se bene mi appongo, deve ora trovarsi al di sopra di una locanda in quel di Serramazzoni. Se così è, la fine dell'insegna, sarà meno ignominiosa, perché essa era una buona opera artigiana.
Tornati sulla Via Emilia sarebbe d'uopo fermare il passo sull'incrocio con quella che oggi è chiamala: Via Nazario Sauro. Sino a pochi anni or sono era chiamata, con titolo meno meritorio: Via della « Simmia » perché la tradizione vuole, ed è sincera, che in questa via sorgesse una locanda all'insegna della « Simmia ». Io nulla ricordo in proposito, perché nulla ho veduto; però laggiù, verso la Pomposa, evvi ancora una osteria di vecchia data.
Eccoci ora ad una fermatine in più acconcio luogo, cioè agli inizi di quella nobile settecentesca via che nel passato era chiamata: delle Case Nuove, indi venne intitolata a Mario Pellegrini, per finire, a distanza di pochi anni, sotto le insegne cardinalizie del Vescovo Morone.
Io però da vecchio modenese posso dirvi che la toponomastica popolana l'ha sempre chiamata: Via del Cavalletto. L'attributo le era venuto da una vastissima osteria - nasceva agli inizi della strada - che aveva per insegna un piccolo quadrupede o cavalluccio, ecco il diminutivo, che noi piccini battezzavamo per « pulidrein » perché ben fatto, grazioso e saltellante pur nella sua linea o sagoma di ferro.
Tipica codesta osteria per la vastità del luogo che l'accoglieva, e per i generi, vini e vivande, che in essa erano serviti da un diligente locandiere.
Anche il Cavalletto se n'è andato, non so se di buon trotto o zoppicante, per una strada che non ha ritorno. Però è finito con una tal quale nobiltà di lignaggio, perché colà ove egli sedeva padrone, si sono fermati al presente altri ingredienti motorii che non hanno di che competere col cavalluccio, per non dire che lo annientano in velocità.
Due passi ora fuor delle mura di S.Agostino - anche se sono scomparse - e portiamoci ai margini dell'aerautodromo, per sostare, e questa volta in letizia, in accogliente luogo di ristoro che risponde all'insegna del « Leoncino ». Un tempo, e non è lontano, detta insegna si presentava al viandante nel modo seguente: « Tabina del Leoncino ». Ad alcuni potrà sembrare strana simile nomenclatura, oggi mutata in: «Albergo del Leoncino ». ma anche se l'antica forma od insegna di «Tabina» (ho diggià spiegato alla meglio tale denominazione nelle pagine precedenti) è scomparsa, v'è tuttavia lassù, visibilmente infisso in sullo spigolo della casa, la bella insegna in ferro dell'antico luogo.
Piccola e punto maestosa la sagoma del re del deserto, e molti potrebbero giudicarlo come un cane di mezzana statura, anche perché è bene azzimato e tosato di tutto punto, però quegli occhietti lucenti e luminosi - sono di puro vetro, non illudetevi - vi fanno pensare un po' alla ferocia degli animali del deserto.
Ho chiesto al signore del luogo il permesso di trarne una fotografia, nella speranza che qualche buon amico mi aiuti nella bisogna. Questo ho desiderato, perché è buona cosa che del nostro passato tempo rimanga un ricordo, sia pure pallido.
Ritornando in città, rifaremo fugacemente la Via Emilia, il bailamme cittadino, senza fermarci a quella viuzza che ha il nome del canale della Cerca che la percorre nel sotterra, ove nell'incrociarsi colla via del Voltone. si poteva scorgere una bella insegna di una locanda intitolata all'«Artigliere» - in questo caso coeva a quella del «Bersagliere» - oggi scomparsa e viva solo nel nome: è stata meno fortunata di quest'ultima, anche se al presente, pure essendo in vita, è nondimeno male in gamba.
La Via Emilia non ci offre, in sussidio del nostro compito, altri esempi di particolare valore, ed è solo allorché ci fermeremo in sulla piazza - che un giorno non lontano era detta di Porta Bologna - che ci incontreremo in una via dal nome pomposo di Corso Adriano.
Via antica rifatta quasi per intero in sulla metà del secolo scorso. Il nome le venne dato dal fatto che nel sottosuolo si rinvennero copiosi residui di marmo d'epoca romana con buone epigrafi. Uno di codesti marmi altro non era che la base di un monumento all'Imperatore Adriano: ecco perché la via si intitolò a lui.
Però nella nomenclatura popolana spettante alle nostre strade, detto luogo era designato coll'attributo «dal pandor» cioè dal nome di una antica ed accogliente taverna che portava l'insegna di un rubicondo pomodoro. La insegna è scomparsa da tempo e con essa pure l'osteria chiudeva i battenti.
Il suo nome però ha continuato per anni a designare la via che sfocia in sul piazzale di S. Pietro, dopo di avere, a metà del suo corso, segnato uno spiazzo che ancora è detto: piazzale Hannover, nel ricordo di una principessa di quel luogo, imparentata col Duca di Modena.
E qui siamo giunti alla fine della nostra scorribanda, che aveva quale gradito proposito quello di ricordare le insegne di osterie e locande antiche e vecchie che, nel parlare popolano, avevano avuto la virtù di segnare, per anni molti, la caratteristica nomenclatura delle vie cittadine e dell'immediato forese.


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[scopricoperchi]
15/11/2008
Grazie Grog per queste perleemoticon). davvero molto interessante.
Ma la tua biblioteca è visitabile?
Ciao
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[joy]
15/11/2008
Interessante.Molto interessante,devo dire che vai a scovare delle notizie veramente interessanti, anche perchè al giorno d'oggi che si va sempre di fretta ci si ferma soltanto sulla superficie delle notizie e non si va mai in profondità a
cercare tutte quelle sfumature
che rendono interessante l'argomento.Ti proporrei come ricercatore e storico di GM!!!
emoticonemoticon Saluti
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[GROG]
15/11/2008
Grazie a voi per le belle parole e grazie a GM per avermi fatto conoscere più approfonditamente la mia città. Sto diventando maniaco della modenesità, oramai non leggo più i libri che leggevo prima (gialli, romanzi...), ma solo libri storici, e su Modena principalmente.

La mia biblioteca non è visitabile, è tutta sparsa tra casa mia e quella dei miei, ma il mio buon nonnetto era un cultore di Modena ed ha un fracasso di pubblicazioni sull'argomento.

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[furzeina]
15/11/2008
Grazie Grog per aver illuminato con un lampione di ferro battuto una nebbiosa Modena d'altri tempi.