(PREMESSA: ho iniziato tardi a scrivere questa recensione, e ora sono costretto a finirla in gran fretta per rispettare il limite di pubblicazione; quindi l'introduzione è più ragionata e invece è carente proprio la parte dedicata al pasto, nel complesso non è all'altezza del locale. Me ne scuso.)
DI NUOVO IN CIMA AL MONDO
Con questo ristorante torno a scrivere di un locale posto sul massimo plateau: tre stelle Michelin dal 2010, 19/20 per la Gault-Millau, insomma uno dei più grandi ristoranti di Francia (e di conseguenza del mondo), oltretutto nel momento in cui sta cavalcando la cresta dell'onda; era dal 2008 che non raggiungevo simili altezze e non mi sono certo scelto una meta facile per la scalata. L'albergo ristorante di Gilles Goujon si trova infatti in uno sperdutissimo paesino nascosto nella macchia mediterranea delle Corbières, zona del Languedoc ove si produce il vino omonimo, lontano chilometri dal più vicino centro servito da una qualche forma di trasporto pubblico, con al conseguenza, tragica per il mio portafoglio, di doverci andare in taxi; del resto non mi sarei mai perdonato, se fossi passato tanto vicino a un simile santuario senza varcarne la soglia.
Salgo dunque sul mio taxi prenotato giorni prima dall'Italia davanti al mio albergo a Narbonne, antica capitale della provincia romana della Gallia Narbonensis, e cerco di godermi il viaggio senza guardare troppo il tassametro, chiacchierando con la loquace tassista che a tutta prima mi ha preso per un inglese (questa mi mancava); il paesaggio, intensamente mediterraneo, scorre davanti ai finestrini inondato da un sole che durante la giornata è stato implacabile e che ancora non accenna a smorzare la sua face.
Arrivo nel piccolo paesino di Fontjoncouse in largo anticipo, passo al ristorante per confermare il mio arrivo e mi viene offerto di usufruire della piscina dell'annesso albergo, posso trovare quanto mi serve, mi viene detto... sì, in effetti non mancano asciugamani e simili, ma io non ho un costume da bagno, preferisco quindi fare un giro per le stette stradine e le piazzette dell'abitato per buona parte colonizzato dall'impresa di Goujon, oltre all'albergo c'è anche una locanda leggermente più economica chiamata La maison des chef e alcune case dove vivono cuochi e camerieri (li vedo che si preparano per il lavoro); decido di salire fino alla chiesetta mezza diroccata che sorge in cima alla collina, e nel tragitto ho modo di vedere i locali che preparano grigliate, incontrare parecchi bellissimi gatti, più o meno amichevoli, e ricevere richieste di indicazioni stradali da parte di persone che ritroverò più tardi in sala. Arrivato davanti alla chiesa mi siedo su una panchina a osservare i prodromi del tramonto, insomma il momento di grande dolcezza in cui il cielo si fa più pallido e assume tonalità rosate, che vorremmo perdurasse indefinitamente ma deve il grande fascino proprio alla sua fuggevolezza cangiante. Sono circondato da rigogliose piante di rosmarino e lavanda, e ascolto Schubert col mio lettore mp3 che ahimè perderò appena tornato a Milano; molti sono i pensieri agrodolci che mi assalgono, ma anche il dolore è stemperato in serenità, almeno per questa sera.
UNA SCOMMESSA VINTA
L'albergo del vecchio pozzo è l'artefice della sopravvivenza di Fontjoncouse, era stato il sindaco del paese a volere una struttura turistica nell'abitato e a far ristrutturare l'edificio, e sempre lui a offrirlo in gestione, dopo l'ennesimo fallimento dell'albergatore precedente, a Gilles Goujon, in cerca del posto dove aprire il suo primo ristorante di proprietà; l'inizio fu duro, giorni interi senza nessun cliente, pare che questo omone arrivasse a piangere, quando era costretto per l'ennesima volta a buttare il cibo preparato. Ma con l'arrivo della prima stella e il premio di meilleur ouvrier de France gli affari cominciarono a girare, fino alla consacrazione definitiva delle tre stelle lo corso anno. Oggi questo vecchio ovile è una struttura di gran lusso nel genere rustico, il pozzo stesso è inserito nel salotto dove è possibile consumare l'aperitivo o il digestivo su comode poltrone di cuoio rosso, ben visibile sotto uno spesso pavimento di vetro; le sale sono inframezzate di cantine per il vino o sale di affinamento dei formaggi a vista, in una libreria della reception c'è la collezione completa della guida Michelin, i colori che dominano sono quelli del crema, del rosso e del marrone, travi a vista, grandi camini in alcune sale, stuolo di camerieri indaffarati a servire la clientela internazionale, ma per la maggior parte francese, che riempie i tavoli apparecchiati come si conviene a un tre stelle. Siccome sono il primo a sedermi a tavola lo chef passa a salutarmi, ma per rivederlo, a pasto terminato dovrò chiedere di potergli fare i miei complimenti: come ho già scritto più volte la tendenza dello chef sempre in sala è molto più italiana. Il personale è di quella professionalità francese inarrivabile, dove la cordialità si ferma sempre al punto da non cancellare la deferenza.
IL BANCHETTO
Scelgo il menu più ampio, Air de fêtes en Corbières (in teoria c'è scritto che è minimo per due persone ma mi dicono che per chi viene da solo non c'è problema, ma allora basta l'indicazione per la tavola intera, presente a sua volta), che prevede, dopo assaggi e mise en bouche, quattro piatti, formaggio, dolce (uno solo, di solito menu di questa ampiezza ne prevedono due) e piccola pasticceria per 150€, un prezzo moderato per un tre stelle, vino al calice di accompagnamento (anche se prendo un po' di tempo per sfogliare l'imponente carta dei vini), tutti della regione, il numero è a scelta, ne prevedo all'inizio quattro, ma diventeranno cinque e in effetti sei contando un rabbocco a bicchiere vuoto, a 12€ l'uno.
I primi assaggi, quelli prima ancora dell'amuse bouche, sono quasi sempre rivelatori, è da lì che hai la folgorazione del grande talento (due giorni prima, al Parc di Frank Putelat di Carcassone questi mi avevano detto poco... i piatti successivi si erano poi rivelati migliori del previsto, ma come immaginato non c'era stato rapimento) e questi, dei piccoli “bonbon” riempiti di purée di funghi e verdure presentati su ardesia, mi fanno subito capire che si volerà altissimo, e infatti il momento sublime arriva immediatamente dopo, con la Collection de tomates, un calice riempito di pomodori di varietà diverse, ricordo solo il cuore di bue, il pomodoro ananas e il nero di Crimea, ma erano molte di più, alcuni semplicemente in fette, altri in trasformati in sorbetto o spuma, con un sorbetto al basilico e un gaspacho ghiacciato in fondo al bicchiere e un grissino al rosmarino in forma di cannuccia. Detto così forse non fa una grande impressione, ma potrei azzardarmi a dire che sia semplicemente la cosa più buona che abbia mai mangiato. Il sapore del pomodoro, così essenziale per noi che viviamo in paesi del bacino del Mediterraneo, è qui condotto alla sua espressione più pura: aromi, consistenze, temperatura (molto fresca) tutto faceva sì che a ogni boccone il mio piacere crescesse fino ad arrivare quasi alle lacrime, avrei voluto che non finisse mai.
La prima entrée ufficiale è anche il piatto-firma di Goujon: “L'œuf poule Carrus "pourri" de truffes mélanosporum sur une purée de champignons et truffe d'été, briochine tiède et cappuccino à boire”, cioè un uovo intero di gallina semi-sodo che vi viene chiesto di tagliare subito per controllare che sia “ben marcio”, infatti al posto del tuorlo esce un liquido nerastro che altro non è che una salsa al tartufo nero, il tuorlo stesso viene reintegrato con lo zabaione al tartufo che viene versato sopra, prima che sul tutto vengano grattate delle enormi lamelle di tartufo; il tutto va mangiato facendo scarpetta con la brioche al tartufo e sorseggiando il cappuccino ai funghi. Comprensibilmente si tratta di un trionfo degli aromi del sottobosco, dove il classico connubio dell'uovo con il tubero viene spinto a una fusione quasi totale, da notare due cose: la prima è che non si sa ancora esattamente come questo piatto venga realizzato praticamente, ci si immagina che le uova vengano cotte fino a un momento in cui l'albume sia già abbastanza solido da permettere di estrarre il tuorlo ancora liquido con una siringa e sostituirlo col tartufo, ma come facciano effettivamente è un segreto che non ha lasciato la cucina di Fontjoncouse; la seconda è una mia personale considerazione fatta confrontando il piatto che ho avuto di fronte io con le foto che si trovano in internet, da cui si evince che negli ultimissimi tempi è stato fatto un notevole passo avanti in termini di eleganza di presentazione, all'auberge, arrivando a una classicità impeccabile.
Mi è più difficile descrivere la seconda entrée perché non si trova nella carta leggibile in rete, si chiamava “i pesci del mediterraneo” e presentava del pesce azzurro, principalmente di piccole dimensioni come sardine e acciughe, crudo o cotto, accompagnato da quello che sembrerebbe un “pomodoro” di vetro soffiato (suppongo di zucchero) che si scioglie quando viene versata sopra della salsa di pomodoro (uno dei giochi preferiti da Goujon); forse il piatto che mi è piaciuto di meno, squisito.
La portata di pesce era il “Filet de rouget barbet, pomme bonne bouche fourrée d'une brandade à la cèbe en "bullinada", écume de rouille au safran”, cioè triglia di scoglio su una patata fondente ripiena di crema di merluzzo e cipolla locale, condita da una schiuma di rouille allo zafferano, posta in un cucchiaio piegato e incastrato sul bordo superiore del piatto, sulla quale viene versato un brodo caldo di pesce che la scioglie, inondando il tutto; si tratta della preparazione che più ricorda il legame storico di queste terre con la Catalogna, tramite i sapori forti dell'aglio, dello zafferano, delle spezie, come mi fa notare uno dei sommelier, non quello che ha preso la mia ordinazione, che è stato spedito a prendersi cura del mio tavolo in quanto italiano... è infatti torinese, ma il suo accento tradisce una lontananza pluridecennale dal nostro paese, l'effetto è strano: parla italiano e francese con la stessa proprietà di linguaggio ma come se nessuna delle due fosse la sua lingua madre, con una cortesia che è difficile da trovare al di qua delle Alpi. Chi dice di non amare la triglia dovrebbe provarla qui... cambierebbe subito idea.
I ricordi non sono nitidissimi per l'anatra con salsa alla violetta (questo e i dipartimenti vicini sono famosi per la coltivazione di questo fiore) accompagnata da una fricassea di funghi, la carne era tenera e consistente, il tutto molto profumato, ma non riesco a richiamare la sensazione alle papille gustative ricevute come invece posso fare con le altre portate, non perché fosse meno buona in assoluto, ma forse poiché ormai solo qualcosa di straordinario avrebbe potuto fornirmi un'impressione all'altezza delle precedenti, ho già avuto modo di notare che capita a questo punto del pasto.
Ma appunto per questo ci viene data l'occasione di cambiare grazie ai sapori intensi e rassicuranti del formaggio: il carrello torreggia imponente e dopo aver detto scherzando che li voglio tutti mi affido al cameriere perché mi componga una selezione armoniosa di formaggi sopratutto locali tra capra, pecora e vacca scegliendo tra i più affinati e terminando ovviamente con un erborinato, cioè il classico Roquefort visto che purtroppo non ne sono altri; magistrale la piccola composta di ciliege che li accompagna.
Visto che è il momento in cui sparisce dalla tavola ricordiamo il pane: preparato con la farina di un mulino lì vicino e cotto a legna in grandi pagnotte può essere bianco o integrale, ma anche il primo non è in realtà candido, proprio a causa della lavorazione artigianale; da spalmarci sopra burro salato o burro rosa alla barbabietola.
Il dessert consiste nelle “Fraises mara des bois aux olives noires confites, sorbet à la fleur de «thym-citron», crème d'olive en coque de soucre soufflé”, ed è tra quelli che più hanno saputo conquistarsi un posto nel mio cuore non particolarmente amante dei dolci, il connubio tra le fragole e le olive nere è perfettamente riuscito, il sorbetto stupendamente rinfrescante senza rinunciare al sapore e la presenza dell'olio tutto tranne che stonata o pretestuosa, il tutto racchiuso in una delle predilette gabbie di “cristallo” zuccherino. Pulisce la bocca ma regalandole un piacere intenso.
IL VINO? MARGINALE
Arrivato fino a qui chi mi conoscesse potrebbe temere un lunghissimo paragrafo sul vino, invece non lo leggerà, perché per la verità non ricordo precisamente cosa abbia bevuto, due diversi bianchi, due rossi e un liquoroso tutti della regione, questo lo so, mi erano però sconosciuti spesso non solo i produttori, ma le stesse denominazioni, e dirò di più: per quanto tutti di ottima fattura nessuno mi ha di per sé rapito, anzi questa è stato tra i pasti più importanti della mia vita quello in cui il vino ha meno contribuito all'incanto complessivo; se poi vogliamo andare a vedere si scopre che quasi sempre negli altri casi era presente del Borgogna, spesso più di uno, e tutto ciò mi spinge a aumentare ancora di più la mia considerazione per la cucina di Goujon, mi è infatti impossibile, per esempio, non considerare fondamentale nell'estasi cui mi ha condotto lo splendido astice cucinato come fosse manzo alla borgognona da Lorain, l'apporto Vougeot premier cru che lo accompagnava, anzi spesso in simili avventure l'impressione più forte, più alta e più profonda rimaneva legata al profumo di un vino. Qui non è stato così, forse se avessi bevuto solo l'acqua (in caraffa) non sarebbe cambiato poi tanto.
Ricorderò giusto, visto che la regione Languedoc-Roussilom è giustamente celebre per i suoi vini dolci, il Banyuls bianco (che bevevo per la prima volta, conoscendo abbastanza bene invece i vini rosso-bruni della denominazione) servitomi con le fragole, aromatico e non eccessivamente dolce.
LA CONCLUSIONE
Terminato il dolce rifiuto un caffè ma chiedo un digestivo da centellinare nel salotto con la piccola pasticceria, presentata in una raffinata scatola di lacca, mentre esamino la carta dei distillati (proibitiva nei prezzi) chiedo anche di scovarmi un taxi che venga da più vicino possibile (riusciranno a trovarne uno che mi costerà meno della cifra prospettata dalla compagnia dell'andata) e di poter parlare con lo chef, che nel frattempo, è quasi mezzanotte, ha sicuramente terminato il lavoro in cucina. L'Armagnac che scelgo è forse l'errore della serata, è indubbiamente ottimo, ma avrei potuto risparmiare quei 28 euro, considerato che quello bevuto la sera prima per soli 5 euro in un ristorantino-enoteca era forse persino migliore.
Un leggermente imbarazzato ma direi lusingato Gilles è costretto a sorbirsi un mio lungo panegirico, in cui non ometto di sottolineare che sono stato costretto a venire in taxi, che verte sostanzialmente sulla difficoltà di rivivere la rivelazione e l'incanto delle prime esperienze nell'alta cucina, e di come egli sia perfettamente riuscito a far sì che questo avvenisse in questa magica serata, senza dubbio alcuno il più straordinario pasto in solitario della mia vita e uno dei candidati per la palma suprema. E' visibilmente stupito e compiaciuto che io conosca alcuni particolari, come la sua affiliazione a un gruppo di chef chiamato “i sette samurai”, e confido che capisca che i miei complimenti erano sentiti e niente affatto rituali, che possa essere fiero di se stesso.
E' venuto purtroppo il momento di uscire, non senza tirare fuori la targhetta di plastica: 150 per il menu, 60 (12 per 5) di vino e 28 di Armagnac, per 238 totali.
Ma quanto mi sia complessivamente costato questa esperienza memorabile, compreso il trasporto, questo rimarrà un mio (imbarazzante) segreto.
Consigliatissimo!!
[mizoguccini]
30/09/2011