Ho esitato a lungo prima di decidermi a scrivere questa recensione: da una parte si tratta di un'esperienza talmente privata e intensa che il pudore consiglierebbe di tacerne, dall'altra una cucina come quella di Niko Romito non può restare senza commento.
LE PREMESSE
Del mio amico Emanuele che vive a Bruxelles ho già parlato nella recensione a La Mer du Nord, è da un po' di anni che passo le vacanze di capodanno con lui, quest'anno mi aveva proposto di andare in un posto sperduto tra Lazio e Abruzzo dove si tenevano dei corsi: lui mi aveva parlato di quello di teatro, ma io avevo preferito quello di cucina e la nostra amica Silvia (la nostra comune moglie come avevamo definito il nostro ménage l'anno prima, ma non immaginate nulla di audace) quello di fotografia. Tralasciando il fatto che sino all'ultimo io non sapevo se potessi andare, non appena Ema mi aveva fatto sapere la località in cui i corsi si svolgevano la mia mania mi aveva spinto a cercarne su una mappa la distanza dal ristorante di Romito e – oh meraviglia – era costituita da pochi chilometri nel cuore del parco nazionale; immediatamente il mio pensiero dominante è stato quello di convincere i miei amici ad andare con me in quel luogo sognato da anni.
Avevo infatti già provato a prenotare al Reale, che si trovava allora a Rivisondoli, durante una delle ultime vacanze a Giulianova con la mia ex nel 2008, ma non avevamo trovato posto, e da allora il mio desiderio di recarmici era cresciuto di pari passo con i riconoscimenti collezionati dalla cucina di Romito, ma non avendo più una base d'appoggio in Abruzzo recarmi in un posto tanto sperduto tra le montagne e malamente collegato sembrava un'utopia.
Il punto era che né Ema né Silvia sono degli appassionati di alta cucina, anzi erano entrambi completamente privi di esperienze pregresse nel campo, purtuttavia Ema è una persona estremamente curiosa e disposta a esplorare campi nuovi e a interessarsi alle passioni altri, e già in passato si era mostrato favorevole all'idea di fare una prova, ma in un locale più “introduttivo”, dal punto di vista del costo e del livello di ricerca; il mio lavoro di convincimento è stato continuo e asfissiante, oltre alle pressioni sui miei amici ho cominciato a telefonare al ristorante prima ancora di essere certo che avrei fatto la vacanza e mi sono assicurato che fosse possibile per ogni commensale prendere un numero diverso di calici di vino anche con lo stesso menu, cui prezzo, 100€ era stato accettato dai miei commensali, non disposti però – inizialmente – a spendere più del 30% per le bevande.
Per farla breve siamo risusciti a confermare una prenotazione, dopo il possibile interessamento e la disdetta di altre persone, per noi tre per il pranzo del 3 gennaio, giorno della partenza dal nostro luogo di villeggiatura. Quella vacanza meriterebbe a sua volta un lungo racconto, ma non qui, e un altro il bellissimo percorso in macchina attraverso l'Appennino in quella mattina che alternava nebbia e sole, ma passiamo dunque alla recensione vera e propria.
LA TENUTA
Trovare il Reale una volta arrivati a Castel di Sangro non è facilissimo se non si hanno le coordinate esatte, ma una volta che qualcuno vi avrà indirizzato verso la zona sportiva troverete dei cartelli che vi porteranno alla tenuta: circondato da vigneti di recente impianto l'edificio che ospita il ristorante, il futuro albergo di lusso e il futuro centro di alta formazione in cucina è un ex convento del rinascimento ristrutturato completamente in bianco, colore che domina tanto all'esterno che all'interno, ampio e quasi monumentale in ogni ambiente, dal vestibolo, alla sala, al giardino d'inverno, alla futura stanza delle colazioni dell'albergo (parte della visita la faremo finito il pasto); rispetto alla precedente collocazione, che mi dicono essere stato uno scrigno raccolto e affastellato di oggetti, qui si gioca sul rigore minimalista nei grandi spazi: il soffitto è altissimo, la parete di fondo della sala principale è un'unica grande vetrata, i tavoli – rotondi a colonna centrale, di legno massiccio e di colore scuro, coperti da pesanti tovaglie bianche – sono ben distanziati (solo tre compreso il nostro verranno occupati, ma al nostro ingresso siamo ancora gli unici), per terra delle strane palle imbottite con sopra una corda rossa avviluppata che fa un curioso effetto “spaghetti al pomodoro”, scopriremo poi si tratta delle decorazioni natalizie, in origine sospese appunto alla corda che è stata lasciata apposta rompersi. Veniamo fatto accomodare sulle nostre comode poltroncine (sgabello porta-borsa fornito per la componente femminile) e, senza essere distratti dall'apparecchiatura minimale (per ora il tavolo è praticamente vuoto, porcellane, argenteria e cristalleria arriveranno solo al momento opportuno rimanendo in ogni momento lineari e funzionali, privi di decorazioni o fogge bizzarre) cominciamo a studiare la carta anche se abbiamo già deciso per il menu degustazione più ampio, anche la scorsa ai vini è più che altro di curiosità, visto che ci affideremo al sommelier per un abbinamento al calice (concordiamo che possa spaziare anche all'estero con un'attenzione ai vini locali), intanto ordiniamo la nostra acqua e ci predisponiamo all'esperienza prendendoci per mano: i miei amici siedono di fronte, Silvia con le spalle alla parete, io – il maestro che deve guidare gli iniziati – sono in mezzo, con lo sguardo verso la vetrata, la pallida luce invernale rende quasi opalescente il candore della sala, il mondo fuori dal vetro sembra sospeso.
UNA GRANDE AVVENTURA
L'ho già ascritto più volte: in un ristorante di questo livello di solito il primo boccone del primo assaggio di benvenuto rivela come sarà l'andamento di tutto il pasto, se è solo buono difficilmente si riuscirà a volare davvero in alto, ma se subito si sprigiona l'incanto allora la promessa verrà mantenuta. Io ero doppiamente sulle spine: non solo si trattava di una cucina che da tempo desideravo provare, ma avrebbe “parlato” ai miei amici? O si sarebbero rivelati sordi al linguaggio specifico dell'alta cucina, che è altro dal semplice buon cibo?
Ad aprire il tutto, un vassoio con tre linee di cinque micro assaggi ciascuna, abbiamo quindi tutti allungato la mano verso il “crostino ricotta di pecora e pomodorino candito” e l'abbiamo portato alla bocca: c'è; io percepisco al volo: Romito è un sommo, il miracolo dell'incontro tra le sensibilità si compie in pieno per quanto mi riguarda, il suo mondo mi è aperto... ma ciò che mi commuove ancora di più è vedere la folgorazione negli occhi di Emanuele, il suo subitaneo sbalordimento, non credeva, non credeva che il cibo potesse essere questo, non l'immaginava neanche e in un solo istante capisce tutta la mia mania, che non gli appare più come fanatismo, l'iniziazione è avvenuta, istantanea come solo nei casi di shock estetici più forti; da qui in avanti da parte sua sarà un susseguirsi di esclamazioni di meraviglia sempre più sommesse, mentre con i suoi occhi da fanciullo si guarda in giro incredulo. Per Silvia il tutto non è altrettanto rapido e potente, ma anche lei ha capito, anche per lei il senso si è spigionato. Gli altri assaggi “polpettina di capretto con patate, crocchella di cicoria e pecorino, battuto di salsiccia con arancia candita e chips di rape rosse con paté di fegato” ci permettono di fluttuare all'altezza cui il primo ci ha portato con la sua vertigine ascensionale da estasi, senza turbolenze o vuoti d'aria.
Intanto ci hanno portato il primo vino al calice a sua volta di livello celestiale (anche troppo, come vedremo in seguito) uno Chassagne-Montrachet Premier Cru (purtroppo per questo vino non ricordo e non sono riuscito a ritrovare il produttore) che lascia sbalordita Silvia che da un po' di tempo sta facendo un corso di degustazione: in effetti la sua delicatezza unita a struttura e sublime eleganza lo rende impeccabile, un esempio splendido di quella che per me è la terra più nobile mai piantata a vite, la Borgogna; ricordo che la distanza tra l'appezzamento che produce i bianchi più prestigiosi del mondo – Montrachet, vigneto Grand Cru diviso tra il comune di Chassagne e quello di Puligny – per ogni vigneto classificato Premier Cru in uno dei due comuni si misura in metri. Il commento di Ema è: “vedo che abbiamo già perso il controllo sulla spesa del vino. E mi va bene così”. La follia li ha contagiati, passeremo quasi tutto il pasto a ridere, espressione di pura letizia non contenuta o intimidita dal contesto blasonato. Per altro i bicchieri verranno anche parzialmente rabboccati.
La scelta nella selezione di pani e grissini artigianali ci tiene impegnati fino all'arrivo della “crostatina olio e olive nere”, un piccolo concentrato di mediterraneità, delle sfoglie di grano accompagnano le fragranti fette di “guanciale affumicato”, morbide come un sogno, e il “panino con scampi” conclude il giro degli amuse bouche con il suo gusto quasi orientale dato dal pane fritto e dagli scampi crudi, stiamo continuando a volare a intorno alla quota di crociera, ma i piatti veri e propri (e sono otto nel menu) devono ancora cominciare.
E lo fanno con la “emulsione fredda di manzo e olio con dragoncello e maionese di lampone”, che rimarrà forse il piatto preferito in assoluto da Ema, che nonostante il colpo già ricevuto prorompe in nuove espressioni di incredulità e godimento, in effetti il modo vellutato di sciogliersi in bocca di quella carne cruda è inimmaginabile, e l'intensità della maionese all'aceto di lampone sbalorditiva; in accompagnamento giunge un Cerasuolo d'Abruzzo dell'azienda agricola Valentini del 2008, il cui gusto fruttato e acidulo crea un'armonia incontestabilmente perfetta con il piatto (un altro abbinamento possibile, e ne discuto col sommelier, sarebbe un lambic al lampone, ovviamente a partire dalla Rosé de Gambrinus di Cantillon)... il problema però è che le stesse caratteristiche non si adattano agli altri piatti in maniera nemmeno lontanamente comparabile, e di per sé il vino non è così memorabile: quello che non sappiamo e che ci accompagnerà ancora per altre quattro portate, infatti pur avendo scelto la selezione al bicchiere ci verrà servita l'intera bottiglia, di questo che è anche il vino più economico del pasto. Questa è l'unica, non indifferente riserva che ho sull'esperienza: è vero che avevamo chiesto attenzione ai vini locali, ma servire lo stesso vino per cinque portate, quando poi non si addice affatto ad alcune di queste, non dovrebbe essere fatto in un locale di questo livello, come poi il servire un vino tanto inferiore al precedente; il fatto che la sala fosse semivuota e che quindi la possibilità di far girare bottiglie già aperte fosse scarsa spiega ma non giustifica la scelta al risparmio del sommelier.
Dopo Ema tocca a me trovare il piatto più emozionante del pasto, con il “gel di vitello, porcini secchi, mandorle e tartufo nero” del quale la cameriera afferma che non è fatto per esaltare il tartufo che resta solo un ingrediente tra gli altri, così in effetti è: il tubero non ha un ruolo più importante del timo in questo gradissimo piatto calibrato al millimetro, quasi una realizzazione culinaria della democrazia ideale; alcune piccole lacrime mi inumidiscono il ciglio mentre degusto questo capolavoro tanto intelligentemente pensato quanto appagante al palato (sì, potete qui leggere una frecciatina a certi chef che nella loro ricerca trascurano un po' il piacere). Qui il Cerasuolo proprio non si può adattare, parlando con il sommelier (cui faccio notare la cosa, non sapendo ancora che ciononostante dovremo aspettare di vuotare la bottiglia prima di cambiare vino) vengo a sapere che alle volte viene dato in abbinamento un tè, e non posso che lodare l'accostamento: non è certo un caso che proprio il piatto che più mi si addice sia sposato ad un tè, e posso solo fantasticare su quale sarebbe stata la mia beatitudine potendo sorseggiare un pu'er, un wulong o anche solo un nero cinese di rango.
Riguadagna una qualche plausibilità il vino accanto allo “assoluto di cipolla, parmigiano e zafferano tostato”, un “brodo” fatto di solo succo di cipolla – senza una goccia d'acqua – in cui sono immersi dei minuscoli raviolini tondi ripieni di solo parmigiano-reggiano affiancati da pistilli di strepitoso zafferano abruzzese, un trionfo esaltante di sapore, quasi un tributo al gusto umami temperato però dalla dolcezza, piatto tanto robusto quanto in effetti raffinato nell'ideazione.
Quando a fine pasto Romito ci ha chiesto cosa ci fosse piaciuto di meno io ho citato il successivo “baccalà, peperone e rosmarino”, non perché non fosse buono (e bello, cromaticamente il contrasto tra il bianco del pesce e il rosso cupo della salsa al peperone è splendido), ma dovendo indicare qualcosa questo è stato il piatto meno memorabile, del resto la cucina di Niko è strettamente legata all'entroterra abruzzese e non stupisce che sia con un ingrediente di mare, pur se storicamente trasportato anche lontano dalle coste, che ottiene il risultato meno sbalorditivo.
Giunge il momento di un piatto di pasta e io mi auguro di veder comparire le “fettuccelle di semola. gamberi rossi e pepe rosa”, cosa che prontamente avviene, ed è il turno di Silvia di trovare il suo piatto d'elezione in questa creazione in cui solo una salsa ricavata dal carapace dei gamberi lega gli stessi alla pasta, con il pepe rosa a celebrare l'unione; avendo una volta discusso con un cuoco che dichiarava di disprezzare questa spezia sono rincuorato dal vederla utilizzata in maniera tanto memorabile. Ormai anche la fanciulla era completamente partita per i cieli della beatitudine gastronomica, e continuava a ripetere che nessuno dei suoi parenti o amici avrebbe potuto capire questa esperienza, tutti e tre eravamo travolti da un'ilarità generata dal benessere, solo che io la riconoscevo e ne sapevo cogliere i confini, per i miei amici si trattava di una vera vertigine e di un'ebbrezza sconosciuta, tanto è vero che Silvia, la concreta, realista, economa Silvia a un certo punto se ne uscì con questa frase, detta in piena convinzione: “beh Ema, adesso anche a Bruxelles dovremo organizzarci... almeno una volta al mese in un posto così”, frase di pura follia, visto che nemmeno un fanatico come me si reca in un ristorante di quel calibro ogni mese, a meno di essere ricco; da allora abbiamo appena accennato a quell'esperienza, prima o poi chiederò a Silvia se si ricorda quella frase, e se riesce a rivivere vagamente per un istante la situazione che gliel'ha fatta pronunciare.
Il piatto successivo, “tortelli con capocollo laccati con pepe nero” è di recente invenzione, non è ancora stabilmente inserito in carta e per questo motivo ci è stato espressamente richiesto un parere da Romito: di grande carattere sono però talmente saporiti che mi sono detto felice di averli provati un porzione ridotta da menu, un intero piatto con dose alla carta mi avrebbe probabilmente sopraffatto. Per fortuna a sostenerli era infine arrivato un nuovo vino, un Valpolicella superiore Terre del Cereolo di Trabucchi del 2004, i cui profumi speziati reggevano la laccatura al pepe della pasta dei tortelli: un vino ottimo in fascia di prezzo media, forse sin troppo recensito e premiato a livello tanto nazionale quanto internazionale ma la nostra relativa ignoranza vitivinicola ci ha fatto apprezzare quello che per altri sarebbe stato forse banale, infine dopo il Cerasuolo rappresentava il ritorno a un vino di struttura.
Ancora un volo verso il puro piacere con il piatto forte, “anatra croccante con spinaci e foie gras”, in cui la scaloppa di fegato stava tra il caldo dell'anatra e quello del piatto, sciogliendosi leggermente e permettendo quindi alla carne di slittare leggermente, una meraviglia di sapori, consistenze, temperature per un piatto privo di tecnicismi esibiti ma di reale perfezione nell'esecuzione; nuovo sbalordimento di noi tutti, nuova gioia, abbandono alla fisicità che non è rinuncia all'intelletto ma accordo con esso: anche tra i grandi cuochi pochi riescono a portarti a simili cime, Romito ci riesce.
Non potevamo rinunciare, a questo punto, a un vino da dessert, e ci è stato portato un Pineau des Charentes rosé, con grande gioia di Silvia, che adora questa bevanda, che come saprete non è propriamente un vino, essendo mosto non fermentato tagliato con Cognac... anche in questo caso non ricordo il produttore che era comunque, come naturale, una maison di Cognac che commercia anche il Pineau quasi più per tradizione e come curiosità che per profitto, visto che il mercato è molto limitato; ottimo comunque nel suo genere.
Io personalmente, rispetto a quei periodi e quei locali in cui ti investono di una quantità di dolci smisurata trovo apprezzabile la tendenza a presentare un solo dessert, però devo dire che un piccolo pre-dessert per preparare la bocca l'avrei gradito, invece dopo la carne e la rituale spazzolatura delle briciole siamo passati direttamente all'ardito “limone, cioccolato, mosto d'uva e liquirizia”: e giusto mentre discutevo con Silvia di come la conciliazione dei contrari (il cioccolato e il limone) avvenisse grazie alla presenza di un terzo elemento catalizzatore (la liquirizia) creando un insieme armonico in omaggio alla legge della Gestal per cui il tutto è più della somma delle parti, proprio come il nostro ormai rodato rapporto per cui insieme siamo in ottima armonia ma togliendo un elemento il tutto si squilibra (in realtà il rapporto a due mio con Ema e suo con Silvia funziona – anche se meno bene di quello a tre – siamo io e Silvia gli estremi da mediare), la tensione di Emanuele si è sciolta in una manifestazione estrema che non riferirò, come non ripeterò le sue parole e i suoi paragoni, ma l'accaduto ha scaldato e aperto il mio animo dandomi la prova definitiva che si trattava di un'emozione autentica, e che ero davvero riuscito a introdurre i miei amici a qualcosa d'importante.
Resta ormai solo da descrivere la piccola pasticceria, consistente in “gelatina di pompelmo rosa, bomba calda al cioccolato, croccante al cioccolato, cioccolatino al limone”, in cui però il connubio ancora una volta ricercato si esprimeva, a parer mio e di Emanuele, in maniera troppo violenta, resettando sì la bocca ma con un effetto non piacevole, come non abbiamo mancato di manifestare a Romito.
RITORNO SULLA TERRA
Lo chef infatti era già passato brevemente, ma è stato a pasto terminato che è passato ad ascoltare i nostri pareri e a incassare i nostri complimenti con una reazione che ad alcuni potrebbe parere fredda ma a me si rivela solo come schiva e riflessiva; questo ancora giovane cuoco che ha creato una tavola di livello mondiale in luoghi in cui non si era mai visto niente di simile, che conosce e ama i prodotti della sua terra e li sa portare a un livello di finezza mai raggiunto da una tradizione che ha interiorizzato e superato di un balzo senza rincorrere nessuna moda è per me, lo dico senza incertezze, il migliore che abbia mai provato in Italia e uno dei vertici assoluti della mia esperienza di cultore dell'alta cucina. Il prezzo del suo menu degustazione, cento euro, è il miglior affare che mai abbia incontrato, giusta compensazione per tutti coloro per i quali giungere al Reale non è affatto semplice.
Il conto finale è stato di 153 euro a testa, al menu e ai vini va aggiunto il costo di un whisky da me preso per concludere il banchetto: desideravo qualcosa di robusto ma non eccessivamente torbato, con una vena soave che mi cullasse ancora un po' nell'atmosfera deliziosa in cui la cucina mi aveva condotto, e allora ho scelto un Edradour invecchiato in botti di Sauternes, un nettare di cui ci siamo versati di nascosto un secondo bicchiere (pur avendo messo la bottiglia sul tavolino di servizio fuori dalla nostra portata me l'avevano portata visto che ne stavo discutendo) che si sono divisi i miei amici; il caffè era offerto, ma se ricordo bene solo Silvia ne ha preso uno (dovendo guidare sino a Pescara dove eravamo attesi da amici di Emanuele che ci avrebbero ospitati).
A malincuore ci siamo alzati da tavola, abbiamo visitato le sale del piano superiore e ci siamo immersi nel buio che ormai aveva completamente avvolto ogni cosa.
La valutazione di quattro cappelli riflette la mia abituale politica sulle prime visite e tiene conto anche del servizio del vino, sul quale ho espresso le mie riserve – spero che con il crescere di questa realtà ancora nuova che è il Reale Casadonna non vengano più fatte scelte del genere – ma la cucina è al di là di qualunque valutazione esprimibile tramite punteggi e va solo provata, per poter vivere una di quelle emozioni tra le poche che si possano segnare senza esitazione nella colonna positiva di quel ineluttabile bilancio che ci impone
la morte.
Consigliatissimo!!
[Jimi Hendrix]
01/03/2012